sabato 12 aprile 2014

TATA VIVIAN, QUANDO L'ARTE USA LA VITA

"Qual è il modo per vivere per sempre?". E' la domanda, in audio ambiente, che Vivian Maier rivolge ai bambini che quotidianamente porta in giro per la città. Mentre loro la ignorano e continuano a giocare. Una testimonianza documentata da filmati girati da lei stessa, una voce che se ne va in giro all'aria aperta e che attraverso il tempo, il caso, la fortuna e la caparbietà di un giovane rigattiere arriva fino ai giorni nostri. E' uno dei tanti passaggi cardine di Finding Vivian Maier, il documentario trasmesso ieri sera al Cinemazero di Pordenone sulla straordinaria odissea della tata - artista che con suoi scatti ha segna uno spartiacque tra la fotografia accademica riconosciuta ufficialmente e l'arte vera che alla fine si fa spazio a discapito degli ostacoli che si ritrova sul cammino. 
La storia è quella di una bambinaia con la passione della fotografia che colleziona, mantenendoli segreti, migliaia e migliaia di scatti sviluppati e altrettanti rullini. Oltre a giornali, ritagli, appunti. Tutto gelosamente custodito. Sarà una scoperta apparentemente causale a far sì che l'arte sottesa a questa narrazione dell'attualità per immagini venga alla ribalta e si impossessi della scena. 

Ma non è una storia di segreti nascosti quella che viene fuori dal racconto ritmato, curato, ricercato. Tantomeno di talenti emersi a posteriori. Per questo, si erano già scomodati in tanti. E l’operazione sarebbe stata più facile e proficua se coltivata su altri terreni. Piuttosto, qui c’è la denuncia sottile e dolorosa che una vita artistica è chiamata a mettere in luce: la necessità di ricercare ostinatamente la maniera di sopravvivere alla quotidianità faticosa e turbolenta. Che fornisce impegni, distrazioni. Che è reale e in quanto tale fuorviante. Per il solo fatto di distogliere e portar via. E allora eccolo il nocciolo di una vita dedicata, chiamata alle armi suo malgrado: il non poter farne a meno. Il dover ribadire sempre, costantemente. Quella macchinetta sempre appesa al collo, ad esempio, che cos’è, se non un ribadire: io e il mio strumento, sempre insieme. Non a caso, man mano che la storia viene snocciolata come rosario di informazioni e chiarimenti, l’imprevedibile diventa l’ovvio e quel che si è ritenuto la norma fino ad allora, l’accessorio. La tata e la fotografa. La domanda è: Chi è chi. Chi usa chi. E se è possibile che i destini si prendano gioco delle vite, piegandole a loro piacimento. Questo lavoro, tagliato su una storia intrigante dice di sì: il potere dell’arte travalica a tal punto l’individuo che la veicola, che la fine non poteva se non essere quella destinata agli artisti. Quando si abbassano le luci, della tata non c’è più traccia. Resta la fotografa che ha piegato persino l’intellighenzia patinata ostile e riottosa. Potere dell’arte. E dell’imprevedibile. Che però a un certo punto, come in tutte le storie in cui va trovato l’anello mancante, viene fuori inaspettatamente (ma non a caso) sotto forma di mossa falsa. Calcolata. Qui non si dirà niente. Perché questo documentario è un inno all’arte che vale la pena cantarsi da soli. E a dirla tutta, anche più di una volta. "Qual è il modo per vivere per sempre?", chiedeva la Maier. E il suo tono era sarcastico perché la risposta c’è e lei ce l’aveva. E’ nella lettera che sbuca verso la fine del documentario. Scritta proprio dalla fotografa nascosta dalla tata. Come dire il destino un bel niente. L’artista sa tutto e lo mette per iscritto. Al massimo, può non sapere come, perché e da chi verrà scoperto poi.

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