giovedì 13 novembre 2014

STRANIERI E ABUSIVI. GRADITI GLI SCONTRI FUORI LE MURA, GRAZIE



L'urlo che unisce è "Fuori gli stranieri". Non importa quali, chi sono, come si chiamano, perché non li si vuole. "Fuori" è il grido che compatta, "Via" il comando d'assalto. Lo stesso, identico lamento senza differenze di accento, da Torino a Milano a Roma.
Le grandi città. Quelle delle grandi occasioni, delle immense possibilità. I luoghi privilegiati in cui bisogna trasferirsi se si vogliono coltivare contatti e avere una carta in più da giocarsi. Le città, grandi. Quelle dove i fatti accadono prima. Che un tempo e prima di altri luoghi sono state culle della civiltà e punto di smistamento dei traffici. Privilegiate perché crocevia di incroci di culture e storie diverse.
Dalla Mesopotamia in avanti i moderni non hanno più inventato niente.
Quello che sta succedendo in questi giorni a Tor Sapienza, periferia est di una capitale dai tentacoli periferici sfilacciati, borgata cresciuta alle spalle della provinciale Prenestina, ex zona industriale della capitale, sedicimila residenti all'attivo, è insofferenza verso gli immigrati in attesa di documenti che ne testimonino lo stato (di rifugiato o in transito), e di chiunque si ritiene debba stare peggio per statuto. Si chiama guerra tra poveri.
Roma come Milano, con i residenti che si scagliano contro chi occupa le case, tanto da far sorgere comitati spontanei che difendono gli alloggi. Passa sotto silenzio l'impressionante dato dell'impennata della disoccupazione di risulta, quella cioè di chi con la crisi perde il lavoro, e non potendo più pagare mutuo o affitto sfonda porte di abitazioni vuote.
Roma come Milano come Torino. Dove meno di una settimana fa la piazza in tv si è rivoltata addirittura contro chi le dava la parola, dimostrando non solo il peggio della diretta ma anche il livello di incomunicabilità.  Nella Torino colta e nordica, nel mirino dei cittadini non erano finiti i Rom e la difficile convivenza con la loro comunità. No, quella era realtà assodata. La rabbia era per il fatto che la comunità sinti e rom fosse stata invitata, in uno slancio televisivo democratico, a dire la sua al pari degli italiani. Ovvero: qui ci siamo noi a dire la nostra, loro devono tacere. Cioè: neanche alla parola hanno diritto.
Immigrati. Abusivi. Nomadi. Le città più all'avanguardia d'Italia li vogliono tutti fuori dai piedi. Roma, Milano, Torino. Le città capitali di patrimoni storici, avamposti d'Europa, scrigni dei residui culturali regali guardano dall'alto e con disgusto l'avanzata di un quarto stato sopraffatto e dolorante.
Che c'entra, l'immigrato è fico se la storia che rappresenta è positiva (leggi d'integrazione o di riscatto), purché non toga il lavoro ai nostri. L'abusivo, ovvio: sì che piace se mette in piedi un giardino verticale o se ripuliscono la facciata di un palazzo. E i nomadi lo stesso. Basta che sull'autobus non si avvicinino.
E' il rancore che monta: per un alloggio assegnato, per una tutela ricevuta, per un diritto che si ritiene ingiusto concedere, per una parola che non si riconosce come diritto. Una rabbia che aumenta progressivamente a mano a mano che si riduce la coperta. La sintesi è: se c'è poco, è a noi che spetta. E' la logica del predatore, che circoscrive il proprio territorio e lo preserva. E' il principio del fuoco attorno al quale devono riunirsi i simili e solo i simili. Per chi non è invitato ci sono le armi e gli insulti. Completamente annullato il concetto dello scambio, tipico delle società evolute e pronte a concedersi; del dono, celebrato in un saggio di Marcel Mauss divenuto pietra miliare dell'antropologia, in cui il concetto di forma dello scambio nelle società arcaiche viene sublimato in motivo, in ragione.
Eppure Roma come Milano come Torino, ognuna sotto una diversa rabbia, si uniscono in un grido che accomuna che è quello, ecumenico e drastico dello slogan del pericolo. Una volta nei confronti degli anziani nei parchi, un'altra dei bambini non più liberi di giocare per strada, sempre delle donne a rischio violenza. Come se bastasse gridare al pericolo perché il pericolo, non ancora consumato, possa davvero far punire i responsabili. Almeno attaccarli.
Offenderli, insultarli, bastonarli.
Un ritorno al passato oscuro, una regressione che in tempi di crisi e di fame non doveva essere intuita, tanto era evidente. Bastava riandare indietro con la memoria, e neanche di tanto. Le istituzioni e in genere chi governa, questo dovrebbero fare: amministrare. Che non significa altro che guardare oltre rispetto all'oggi. Immaginare una società non per quello che è ma per quello che dovrà essere. E lavorare oggi per farla essere tale domani. E non servono doti di intuizione straordinarie. Perché in genere ogni fenomeno attuale ha degli antesignani. A Corcolle, sempre a Roma est (senza neanche spostarsi troppo, dunque) a fine settembre c'è stato l'assalto degli autobus e la reazione dei residenti. Quello era un avvertimento. Un avviso ai naviganti che andava localizzato. Una miccia, il fuoco che sta per accendersi anche se ancora serpeggia in trincea. Chi ci governa non sente un leggero odore di bruciato, non avverte l'incendio che sta divampando? Se a risposta è no, le spiegazioni sono due: o è già troppo lontano, al riparo sulla montagna, lì dove non arriva il fumo, figuriamoci il fuoco. Oppure in un terreno di erbacce pronte a incendiarsi facilmente, quella cicca di sigaretta accesa, siamo sicuri per distrazione, gli è scivolata inavvertitamente di mano.
Gli inglesi dicono Not in my garden. Qui potremmo parafrasare Fuori dal centro storico.


 

Nessun commento: