martedì 16 settembre 2014

FAME vs PAURA. E PERDONO TUTTI

Le morti non sono tutte uguali. Quella di Mustafa e Aydil, uccisi a trentotto e ventisei anni dal loro ex datore di lavoro che ha raccontato di averli visti entrare in casa sua con un piccone in mano, mentre andavano a chiedere stipendi arretrati e liquidazione, è una tragedia figlia del tempo della crisi.
Chi è chiamato a raccontare fatti ogni giorno ha l'obbligo di riconoscere da lontano il peso di una storia come quella dei due kosovari che in Italia hanno trovato un lavoro mai retribuito e una morte violenta.

I due giovani morti ammazzati a Fermo perché, esasperati, inascoltati, non aiutati, erano andati a riprendersi quel che spettava loro non sono protagonisti di una tragedia inferiore a quella di tanti disperati che sbarcano quasi cadaveri sulle nostre coste sempre più respingenti. All'aria vanno i cenci, chiosava tristemente Giovanni Verga nella novella Libertà. Chi ci rimette sono i deboli, sono loro che perdono sempre. Stracci al vento, finiscono così quelli che si espongono senza avere tutele. Si parlerà di legittima difesa, nell'aria già si sente quest'odore. I giudici stabiliranno se sarà giusto così. Mi chi è che doveva legittimamente difendere i due lavoratori feriti nella loro dignità?
Dov'è lo Stato?, in questo paese che sta cominciando a farsi giustizia da sé.  
Dov'è lo Stato?, se la situazione lavorativa dei due ragazzi era nota sia ai sindacati, sia la camera di lavoro territoriale di Fermo. Tutti sanno, eppure dei soldi neanche l'ombra. 
Mustafa è morto subito, Aydil lo hanno trovato agonizzante 150 metri più in là, in mezzo a un campo di girasoli. Ha fatto in tempo ad arrivare in ospedale e morire lì.
Eppure chi scrive ha in questa analisi più che mai il dovere di non derubricare nessun aspetto: non siamo di fronte a un assalto alle ville né - per contro - chi ha ucciso non è un pazzo che ha preso in ostaggio due passanti. Questa è una storia diversa, che deve fare da apripista a un filone che è quello dei drammi originati da un imbarbarimento latente, progressivo e inesorabile.
Le tragedie figlie dei tempi bui hanno più volti e, come in questo caso, un epilogo doppio e tragico: tre vite interrotte. Quelle di chi ha subìto e tanto atteso fino a prendere decisioni sbagliate; e la terza -  di un uomo sopravvissuto -  che però proseguirà nella disperazione. Cominciata forse proprio dal calo delle commesse e senza uno Stato a fare da ammortizzatore.
Restano l'uomo e la paura. Cioè resta l'uomo nudo, indifeso, senza appigli, senza ancore di salvezza. Chi prova la paura, quella vera, fa ritorno agli albori della natura, e non è diverso da chi  - affamato - brandisce un piccone per riavere i propri soldi. E' la fame contro la paura. E' la fine. E' il ritorno all'ominide, non all'uomo.
Solo una via di salvezza c'è di fronte a un baratro di queste dimensioni: uno stato di diritto che dia la bussola e faccia orientare chi non sa più a che santo appellarsi.
Interpellato dal suo discepolo, il Galileo di Brecht risponde ad Andrea di aver abiurato per la paura del dolore fisico. E nel dare questa risposta annuncia la sua piccolezza e si arrende (ominide). Ma un secondo dopo è grande perché si è messo a nudo (coraggio delle azioni). E perché ha chi lo ascolta (Andrea è lo Stato, che lo giudica, lo ridimensiona e lo assolve).
Ma lo Stato serve. E serve adesso. Perché ai tempi della crisi, peggiori delle tragedie partorite dalla paura, sono solo quelle figlie della povertà che sfiora la fame. E in queste storie, come in quella di Fermo, a perdere sono tutti. Indistintamente.

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