giovedì 15 maggio 2014

MARINA, AS WE WERE

Nel giorno in cui l'ultima tragedia del mare restituisce non solo l'orrore di un dramma che continua a ripetersi, uguale a se stesso, ma anche le immagini che danno volto e corpo a dodici donne, tre bambini  e due uomini morti per aver voluto un futuro migliore, sfilano davanti agli occhi le immagini di un film  - nelle sale in questi giorni - che, ironia della sorte, nel titolo esprime il suono del mare, nella storia che racconta racchiude tutto quel che serve per vivere: la speranza e il sogno e nella sostanza è un tornado di riflessioni che non dovrebbe farci dormire. 

Marina sta passando sotto sordina pur avendo avuto riconoscimenti e critiche positive. 
Eppure è uno di quei film che andrebbero proiettati nelle scuole. Non solo per farci sapere chi siamo oggi, sembra paradossale, quanto per renderci noto come eravamo allora. Soprattutto, come eravamo considerati. 
La storia, basata sulla biografia di Rocco Granata, è quella dell'Italia che dal sud emigrava in Belgio. Che lasciava il sole, il pecorino, la casa di mattoni e le radici, per andare a guadagnarsi da vivere sotto terra, scavando miniere e ammalandosi. Con l'impegno (uguale a quello di tutti coloro che se ne vanno dalla loro terra), un giorno, di far ritorno in condizioni migliori. Più spesso, con la disillusione di dover farsi raggiungere dal resto della famiglia.
Erano gli anni in cui a essere gli immigrati eravamo noi. Emarginati, derisi, messi da parte, schifati. Erano gli anni in cui i cani da lasciar fuori dai negozi eravamo noi, gli italiani. Uomini e donne che abbandonavano tutto pur di star meglio. E poco importa se questo meglio significava umiliazione. Quel che c'era qui da noi era peggiore. Peggiore del buio della miniera, del catarro insidioso regalato dagli scavi insieme al pane, dell'impossibilità di farsi vedere dignitoso da un figlio. 

"Qui non siamo in Italia", dice con scherno e provocazione un cittadino belga a Granata padre (Lo Cascio) che sulla terra fuori da casa si sta costruendo un orticello: "Qui quello che non si può fare non si fa. Se non ti sta bene vattene". 
E' uno spaccato di mondo e di tempo che racconta l'Italia contadina e preindustriale, povera e neanche bella che atterra nel futuro di un mondo che la respinge. E che se la accoglie, è solo per destinarle i lavori più scarsi, quelli che nessuno vuole fare. Ci ricorda qualcosa? E' una fotografia di dolore e di vergogna che ci vede indossare tutti e due i panni: quelli dei poveracci in cerca di vita e quella dei padroni con il bastone in mano. Quelli che stabiliscono che i figli dei minatori dovranno fare i minatori e così sia. 
E così siamo oggi noi. 
Come se l'odio e il rancore accumulato negli anni in cui ad approdare su spiagge che non  ci desideravano eravamo noi, ci avesse fatto dimenticare che cosa significa essere emarginati. Peggio. Come se questo odio, si fosse accumulato dentro di noi fino a creare una montagna dalla quale lentamente e crudelmente, come un vulcano che non si stanca, lo stiamo piano piano ricacciando all'esterno. 
Sarebbe utile che chi oggi usa il potere come una sciabola, sfruttando le persone come mezzo di pressione politica veda questo film. E lo capisca. Poi, magari non a voce alta, rifletta sulle tante esternazioni strumentali di questo periodo pre-elettorale. Provando, se si può, a immaginare che cosa sarebbe stato di molti dei nostri predecessori se una volta deciso di emigrare, dopo la guerra, avessero trovato  - una volta a destinazione - un passaporto pronto per trasferirli in altri lidi.
E poi. 
E poi c'è un altro aspetto. Marina non è (solo) un film sugli italiani che emigravano, sui loro dolori e sulle loro speranze. E non è neanche la storia romanzata di un ragazzo che amava la musica e che ha coronato il suo sogno. Che fosse qualcosa di serio già di capiva dall'impegno dei Dardenne. Marina è a tutti gli effetti una riflessione spietata sui belgi e sulla loro piccolezza di vedute di quel periodo. Un serio e crudele esame a raggi x che permette a tutti, belgi e no, di isolare un male endemico che si chiama razzismo. Di guardare in faccia la realtà, ma non di nascosto, in silenzio e in disparte, no.
Di guardarla e di farla vedere a tutti. I belgi hanno avuto il coraggio di farsi guardare dietro e di farsi anche criticare. 
La domanda è: gli italiani lo realizzeranno mai un film come questo? Raccontando la percezione della migrazione che hanno oggi e ammettendo, una volta per tutte, che questo stivale, da nord a sud è serpeggiato da un razzismo strisciante?
Speriamo di sì. L'arte è l'unico rimedio salvifico per l'attualità. 
E se non potrà esserlo per quella che viviamo, pensiamo almeno a quella che vivranno i nostri figli. 

1 commento:

Unknown ha detto...

Chiara, questo articolo mi ha fatto pensare che tante storie raccontate per qualche giorno dai media finiscono come sono iniziate....nel nulla. È giusto che tutto debba essere dimenticato così in fretta? È giusto che non debba restare traccia di un insegnamento? A volte sembra che sia tutto un sogno o il preludio di una realtà che deve arrivare.